UN’ANALISI E UNA PROPOSTA

In questa fase di profonda crisi economica, la cosiddetta green economy sta diventando sempre più la nuova frontiera per trarre profitto dallo sfruttamento del territorio e dei beni collettivi, o comuni per dirla con un termine abusato. Con una grande operazione di mistificazione la mercificazione dei beni collettivi, che includono il territorio e ciò che c’è sotto e sopra, la “industrializzazione” del settore specifico dei rifiuti insieme alle politiche energetiche, vengono subdolamente spacciate come nuovo sviluppo sostenibile, ottimizzazione delle risorse e, soprattutto, fonte di nuova occupazione. Ad avallarla, in questi anni, sono stati i governi, di destra come di sinistra, non solo con nuove leggi, con nuove deroghe alle vecchie, ma soprattutto con la mole enorme di contributi statali e la geniale formula del project financing. In altre parole con la socializzazione dei costi e l’appropriazione privata dei profitti. Non ci riferiamo solo ai CIP6 ed ai certificati verdi, né ad altri contributi sottratti alle vere energie rinnovabili, ma anche alla massa di denaro pubblico tolta alle spese sociali, all’occupazione, per finanziare le grandi aziende. Si vedano ad esempio i 355 milioni sborsati dalla Campania per regalarli alla FIBE-Impregilo (principale responsabile del disastro campano) per l’acquisto dell’inceneritore di Acerra imposto dal governo, o i 400 milioni previsti per l’inceneritore di Albano ed i previsti nuovi impianti di TMB, ma anche la mole di denaro destinata ad opere inutili come il TAV fino ad arrivare alle spese militari. Tutto questo proprio mentre, in nome della crisi e dei sacrifici necessari per un’ipotetica crescita, si abbatte la scure dei tagli su ammortizzatori sociali, sanità, trasporti, scuola, ecc..

Chi pensava che i provvedimenti di un Prodi o di un Berlusconi in tema di ambiente, energia, rifiuti e privatizzazioni, potessero bastare a questo vero e proprio arrembaggio, si era sbagliato.

Il governo “tecnico” Monti ha dato prova di superare in “efficienza” tutti i suoi predecessori nel compito di tutela degli interessi dei poteri forti. (Qui, ovviamente, tralasciamo forzatamente di entrare nel merito dell’”efficienza” dimostrata in tema di lavoro e di attacco ai diritti in generale, per concentrarci solo sui temi “ambientali”)

Basterebbe l’esempio dell’ILVA ad indicare come e quanto pesino diversamente, per questo governo, la salute dei cittadini e la salvaguardia di patron come Riva. Per salvare l’azienda più inquinante d’Europa è bastato un semplice decreto, ricorrendo alla retorica della salvaguardia dei posti di lavoro, al ruolo irrinunciabile della siderurgia per il “paese Italia”, alla concorrenza internazionale fino allo scontro ed al dileggio di una magistratura che, a differenza della maggioranza dei casi, ha osato imporre la tutela della salute dei tarantini, lavoratori e cittadini.

Ma il governo Monti non si è limitato alla sola ILVA. In poco più di un anno Clini e soci hanno legiferato per avallare ed incentivare le più grandi porcherie in tema di politica ambientale giustificate dalla necessità di sviluppare il paese e da quella di “assolvere agli impegni europei ed internazionali”, nonché dalla tutela del paesaggio e, persino, dalla riduzione del “rischio ambientale” rappresentato dall’utilizzo delle discariche.

Dal cilindro degli efficienti tecnici sono venuti fuori provvedimenti da far accapponare la pelle. A partire dalla legge di stabilità passando dal decreto liberalizzazioni, decreto sviluppo fino al decreto sull’ambiente del luglio 2012 ed ai decreti specifici sul tema delle emergenze rifiuti, è un fiorire di deroghe a leggi esistenti, di proroghe e di via libera a privatizzazioni, opere infrastrutturali inutili, incentivi a impianti nocivi. Sono riusciti addirittura a derogare alle loro stesse deroghe, come nel caso del decreto sulla gestione rifiuti approvato quando ormai il governo era dimissionario. Con esso, infatti, si proroga sia l’affidamento alle province del trattamento e lo smaltimento dei rifiuti sia la gestione commissariale, ove presente. Altra proroga è quella concessa per lo sversamento in discarica di rifiuti che superano il limite massimo di tolleranza calorifica di 13 mila chilo joule (rifiuti speciali). Inoltre, sempre a deroga degli impegni presi, è stato ridisegnato l’elenco dei Siti di interesse nazionale (Sin) da risanare, declassandone 18 su 57 a Siti di interesse regionale (SIR). Tra i siti che tornano alle Regioni ci sono la Bovisa (alla periferia di Milano), Cerro al Lambro (Lombardia), i bacini dei fiumi Sacco (Lazio) e Sarno (Campania), La Maddalena (Sardegna), alcune aree del litorale vesuviano. Che con questi chiari di luna è come dire: scordatevi la loro bonifica. E questo solo perché non soddisferebbero i requisiti dell’articolo 252 del decreto legislativo del 2006 “Norme in materia ambientale”, come modificato dall’articolo 36 bis della legge del 7 agosto 2012 che ha convertito in legge le “Misure urgenti per la crescita del Paese”. Insomma, ancora in nome dello sviluppo e della crescita che starebbero alla base anche della nuova tariffa TARES che sostituirà, moltiplicandone il costo per i cittadini, la TARSU e la TIA.

Da cosa scaturiscono questi provvedimenti?

Innanzitutto, lo abbiamo detto all’inizio, dalla crisi. Non è questo il luogo per entrare nel merito delle ragioni che stanno dietro ad una crisi di portata internazionale e che sembra senza via d’uscita. Quel che è certo è che, in Italia come altrove, nel tentativo di uscirne, o meglio, per riuscire a lucrare anche in questa fase, le banche come le imprese, chiedono, ed ottengono,: la socializzazione delle loro perdite, l’eliminazione di ogni regola o intoppo burocratico/legislativo che limiti la loro azione, una nuova collocazione delle risorse pubbliche – dalla spesa sociale al sostegno diretto o indiretto alle aziende -, la possibilità di poter arraffare e speculare su qualsiasi cosa.

Sotto questa luce diventano comprensibili le misure per rilanciare le infrastrutture, le colate di cemento ed il vero e proprio via al sacco di intere città (v. Roma), e persino alle trivellazioni, ai depositi di gas o la geotermia, inserita tra le fonti energetiche strategiche; così come diventano comprensibili i provvedimenti volti a semplificare le procedure e le autorizzazioni o la mitigazione di strumenti come la VIA per tutta una serie di impianti ad alto impatto ambientale. Tutti lacci e lacciuoli che sarebbero la causa, a dire del governo, della mancata crescita. Infine l’apertura di una nuova fase di incentivi nel settore rifiuti-energia il cui obiettivo è prorogare ed allargare il bengodi dell’incentivazione alla produzione di energia da fonti rinnovabili ed assimilate inaugurato dall’introduzione nel ’92 dei CIP6 e dei Certificati verdi introdotti dal decreto Bersani del ’99. I CIP6 seguono un accordo tra il governo, l’Enel e le maggiori imprese petrolifere (ENI, Edison, ecc.) che, classificando gli scarti di raffineria, degli altoforni, ecc. come assimilati alle rinnovabili, li trasforma in una nuova frontiera di speculazione invece di un costo economico per il loro smaltimento. Dalla loro approvazione i soli CIP6 hanno portato nella casse delle imprese oltre 50 miliardi di euro.

Un lucroso affare che, però, con l’invecchiamento degli impianti (20 avviati prima dell’’80; 3 tra ’81-’90; 17 tra ’91-2000; 20 tra 2001-2010) e con il recepimento delle direttive europee, sta diminuendo, nonostante le deroghe fraudolente inserite nella legislazione in materia di emergenza in Campania.

Nel 2011 i costi totali dei ritiri del GSE per l’energia prodotta in regime CIP6 sono stati stimati in circa 3,3 miliardi di euro (dati dalla relazione AEEG 2012), in prevalenza (circa il 72%) legati alla remunerazione dell’energia CIP6 prodotta da impianti assimilati. Solo nel 2008 la remunerazione dei CIP6 era stata di 5.479,10 milioni di euro.
Tabella1SitoNazA fare la parte del leone poche imprese. Per le assimilate risulta che otto operatori effettuano la quasi totalità della generazione elettrica in convenzione CIP6; le quote maggiori spettano ai gruppi Edison (20,8%), Saras (18,4%) ed Erg (16,8%). Manca l’ENI la cui quota è andata assottigliandosi negli anni.
Tabella2SitoNazPer l’energia prodotta da fonti rinnovabili, in cui sono annoverati i rifiuti, la società A2A ne realizza quasi un terzo (30,9%), seguita da Ital Green Energy Holding (14,1%), Api (7,7%) e International Power (5,8%). Complessivamente i primi dieci operatori coprono oltre l’80% dell’energia totale rinnovabile in convenzione CIP6.
Tabella3SitoNazPer il 2012, in base ai dati GSE, i CIP6 per le sole rinnovabili, escluso il fotovoltaico, ammonterebbero a soli 221 milioni di euro.
Nonostante i significativi importi, l’abbuffata di questi anni è, quindi, destinata a ridimensionarsi.

Da qui la necessità di trovare altri significativi “sostegni”.

Il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico, di concerto con il Ministero dell’ambiente, del 6 luglio 2012, è una nuova boccata di ossigeno all’industria dell’incenerimento. Con una ulteriore furbata all’italiana, gli efficienti tecnici del governo, onde evitare altri procedimenti di infrazione, hanno giocato sull’ammissibilità europea dell’incentivazione alla produzione di energia da biomassa (la qual cosa ci conferma l’”ambiguità” della normativa europea) cucendo la legge sulle necessità della lobby inceneritorista italiana. Infatti, da una parte si riconferma la necessità di “assicurare adeguata capacità di realizzazione di impianti di termovalorizzazione dei RSU” allungando nei fatti la loro vita e facendo salve le disposizioni per le regioni in emergenza, come pure si garantisce, con un regime transitorio, la tutela degli investimenti per impianti a fonti rinnovabili (alias rifiuti) entrati in esercizio entro il 31/12/12 già coperti da certificati verdi oltre il 2015; dall’altra il concetto di biomassa per il calcolo dell’incentivo si dilata per includere rifiuti plastici, pneumatici, rifiuti industriali (cuoio conciato contenente cromo, carta e pellicole per fotografia contenenti argento, vernici e solventi, ecc.). E se per gli impianti a biomasse la soglia per il calcolo dell’incentivo è del 51% per gli “impianti ibridi alimentati da rifiuti parzialmente biodegradabili” o “impianti alimentati con la frazione biodegradabile dei rifiuti” basterà che la frazione biodegradabile superi appena la soglia del 10% per ottenere l’incentivo. Insieme agli impianti alimentati da biomasse, biogas, bioliquidi e frazione biodegradabile si incentiva anche il potenziamento degli impianti già esistenti e gli impianti geotermici. Come se non bastasse, tutti gli impianti di potenza inferiore o uguale ad 1 MW sono soggetti ad una procedura semplificata per l’autorizzazione; un chiaro via libera che non a caso ha già prodotto nel Lazio l’avvio dell’iter autorizzativo per 165 impianti a biomasse/biogas. All’incentivo si sommano ulteriori e consistenti premi in caso di abbattimenti dell’impatto ambientale o quando operino in assetto cogenerativo.

La “zuppa” è garantita ed è stimata in circa 5,8 miliardi di euro l’anno per 20 anni.

Ma il business dei rifiuti è una torta troppo grossa per non distribuirne una fetta anche ad altri commensali. Il buon Clini ha quindi pensato bene di accontentare anche i suoi amici della lobby dei cementifici e, a Camere ormai sciolte, ha avviato l’approvazione dello “Schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente il regolamento recante disciplina dell’utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS), in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime dell’autorizzazione integrata ambientale” che ha ottenuto il parere favorevole da tutti i partiti nella 13 commissione “Territorio, ambiente, beni ambientali” del Senato,  mentre è stata respinta alla commissione della Camera su pressione di numerose organizzazioni ambientaliste (non dubitiamo che la vicinanza delle elezioni abbia avuto il suo peso in questa decisione).
La palla passa quindi al Quirinale che dovrà decidere su quest’ultimo decreto sulla base dei pareri espressi non vincolanti dalle Commissioni parlamentari (contraria la Camera, favorevole il Senato ndr)”. Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini (un uomo che ha alle spalle 25 anni di disastri ambientali italiani) ha invece già detto che si andrà avanti anche se la Camera ha espresso parere contrario non vincolante sul DPR. Sull’argomento stanno infatti viaggiando in parallelo due provvedimenti che si differenziano per specifiche tecniche diverse. “Nel secondo caso si tratta di un decreto ministeriale che va avanti lo stesso… Non ne dubitavamo.

Per la verità questi provvedimenti non fanno che ufficializzare quanto, ormai, da più parti già avviene. Vogliamo ricordare, ad es., che in Campania il “verde” Ganapini, ex Assessore Regionale all’Ambiente, nel lontano luglio 2009, aveva sottoscritto un protocollo di intesa con l’AITEC per bruciare CDR nei cementifici e che tale pratica è già in atto in molti impianti anche in altre regioni. Non ci sono dubbi, però, che istituzionalizzare per legge l’utilizzo dei CSS nei cementifici, significa legalizzare la trasformazione dei 57 cementifici a ciclo completo (con forno) presenti in Italia in altrettanti inceneritori di rifiuti aggirando, in tal modo, l’opposizione dei movimenti alla costruzione di nuovi inceneritori.

Non c’è che dire, un bel regalo alla lobby dei cementieri. Infatti, secondo i calcoli del governo presentati nella Relazione alla proposta di decreto, con l’utilizzo del CSS, a parità di livelli produttivi, il settore italiano del cemento stima di poter arrivare a sostituire circa 2.000.000 di tonnellate l’anno di combustibili fossili (pari al 50% dell’energia termica consumata). Un risparmio enorme, visti i costi internazionali dei combustibili, a cui si sommeranno i contributi allo smaltimento; un vero toccasana per i profitti di un settore in difficoltà. In più, le ceneri tossiche e nocive, frutto avvelenato dell’incenerimento, che in altro tipo di impianto andrebbero smaltite a costi elevati in discariche speciali, vengono inglobate pari pari nella matrice cementizia. Quindi anziché un costo diventano un guadagno, facendo crescere il volume e il peso dei cementi prodotti.

La gravità di questa misura sta nelle nefaste conseguenze che si avranno sull’ambiente e sulla salute. I cementifici, infatti, sono impianti industriali altamente inquinanti e fonte di alte emissioni (CO2, PCB, ammonio, cadmio, mercurio, nickel, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, benzene, diossine e quantità incalcolabili di particolato) già senza l’uso dei rifiuti come combustibile. Considerando la massa dei fumi emessi (ben oltre gli inceneritori), considerando che questi impianti non sono dotati di specifici sistemi di abbattimento delle polveri e tanto meno dei microinquinanti, e sono autorizzati con limiti di emissioni più alti, la miscelazione di combustibili fossili insieme ai rifiuti avrà l’effetto di moltiplicare la nocività di questi impianti. Una vera e propria bomba rispetto agli stessi inceneritori.

Sta nel pericolo di una produzione di cemento tossico che andrà a finire nelle nuove costruzioni e infrastrutture, con il serio moltiplicarsi di episodi come quello della casa della farmacista di Treviso o di viadotti crollati alle prime sollecitazioni o evento metereologico.

Ma anche, e soprattutto, nel fatto che si pone una ipoteca, meglio sarebbe dire una pietra tombale, sulla possibilità di intraprendere la strada di soluzioni sostenibili ed alternative all’odierna criminale gestione dei rifiuti, a cominciare dalla raccolta differenziata finalizzata alla riduzione, riuso, riciclo dei rifiuti. I Comuni o i gruppi di Comuni che firmeranno i contratti per il conferimento alle aziende produttrici di CSS, saranno vincolati a rispettarli per tutta la durata stabilita. Il che vuol dire che in tutto quel tempo il contratto impedirà ogni iniziativa comunale indirizzata a far partire la differenziazione dei rifiuti finalizzata al riciclo. Né più né meno dell’effetto perverso dell’inceneritore, nemico giurato di ogni progetto di riciclo.

L’ambientalismo di Clini e degli imprenditori

La beffa è che il ministro Clini e l’Aitec (associazione dei cementieri) spacciano questa operazione come altamente ecologica perché sostituisce energie alternative (CSS) ad energie da combustibili fossili, abbatte le emissioni di CO2,riduce lo smaltimento in discarica che rappresenta “un potenziale rischio ambientale”. Nella Relazione alla proposta di decreto si dice chiaramente che: “i rifiuti devono essere gestiti come risorse da valorizzare e non come problema da rimuovere. Occorre sviluppare in Italia – come è già avvenuto in altri stati membri dell’UE – una vera e propria economia del riciclo e del recupero, riducendo progressivamente lo smaltimento in discarica in quanto, tra l’altro, disincentiva le forme di gestione più virtuose”.

Ormai per avvalorare le peggiori schifezze, questi signori ricorrono allo stesso linguaggio dei movimenti. Una pratica non solo del governo e degli “esperti embedded” italiani, ma anche dei loro amici europei. Un’ottima arma per accreditarsi presso una massa sempre maggiore di cittadini che chiedono di cambiare lo stato delle cose presenti con soluzioni sostenibili e, per questa via, depotenziare la capacità di mobilitazione dei comitati. Un problema in più per noi costretti a demistificare, a tradurre, per smascherare ciò che c’è dietro al loro “recupero”, al loro “riciclo”, alle loro “pratiche virtuose”.

A quest’arma “ideologica” si accompagna, però, lo strumento repressivo.

Anche in questo caso si è sbagliato chi pensava che non si potesse fare peggio del governo Berlusconi. Chi non ricorda la legislazione di emergenza (decreto 90 in primis) con cui quel governo trasformò discariche ed inceneritori in siti di importanza strategica nazionale, la loro militarizzazione, la repressione delle lotte dei comitati (con processi ancora in corso) che, in Campania, si opponevano all’apertura di nuovi impianti? Ebbene, oltre alla citata vicenda ILVA, i ministri del governo Monti sono andati per le spicce contro intere comunità pur di garantire la realizzazione dei progetti decisi anche senza la foglia di fico dell’emergenza. L’ulteriore incremento della militarizzazione della Val di Susa e la repressione degli attivisti (alcuni in carcere) per garantire l’avvio dei lavori del TAV ne è una conferma e non la sola. Altri gravi episodi come nel caso del

  • MUOS: repressione violenta, denunce e provvedimento del Ministro Cancellieri con cui si definisce “sito di interesse strategico per la difesa militare della nazione e dei nostri alleati” tutta l’area (Niscemi, Sicilia) su cui procedono i lavori per l’installazione del sistema MUOS (Mobile User Objective System) di telecomunicazione satellitare della Marina Militare degli Stati Uniti. Un modo per stroncare il movimento anti-MUOS e di farsi beffa sia degli atti di sospensione dei lavori emessi dalla Regione Sicilia sia dell’intervento della Procura di Caltagirone che lo scorso 6 ottobre aveva disposto il sequestro del cantiere per reato di violazione sulle leggi ambientali e dei vincoli paesaggistici fissati dal decreto istitutivo dell’area protetta. Sequestro annullato, un paio di settimane dopo, dalla quinta sezione del Tribunale della Libertà di Catania e che attende il verdetto decisivo della Suprema Corte dopo il ricorso avviato dal Procuratore capo del Tribunale di Caltagirone Francesco Giordano.

o del

  • Referendum in Val d’Aosta: il Consiglio dei Ministri, il 18 gennaio, ha deciso di impugnare la legge regionale relativa alle «nuove disposizioni in materia di gestione dei rifiuti», in quanto trattasi di materia di esclusiva potestà legislativa statale. L’impugnazione avviene nonostante e contro la vittoria riportata nel referendum propositivo dello scorso 18 novembre con cui i valdostani hanno bocciato l’inceneritore imposto dalla Regione (il pirogassificatore) e hanno trasformato in legge il testo referendario, vietando qualsiasi trattamento a caldo dei rifiuti sul territorio regionale.

ci mettono sotto agli occhi una deriva autoritaria dove i cosiddetti “strumenti democratici” diventano carta straccia davanti agli interessi dei più forti. Un film che abbiamo visto anche sul referendum sull’acqua, che continua ad essere disatteso dal procedere delle privatizzazioni e dalla conferma, in bolletta, del riconoscimento dei profitti a remunerazione degli investimenti. Ma le stesse leggi, e quella magistratura che vi vuole fare riferimento, sono stravolti, derogati, piegati, a leggi ben più consistenti quali quella del mercato e del profitto di pochi. Un aspetto che dovrebbe imporre una dura riflessione in quanti, anche nei movimenti, continuano a pensare di poter raggiungere i propri obiettivi attestandosi solo su battaglie di tipo legislativo/giudiziarie.

Certo, tutti noi, nella lotta contro le discariche, gli inceneritori ed altri impianti di morte, abbiamo sperimentato le forme più disparate di contrasto ai progetti di devastazione dei nostri territori. Abbiamo fatto ricorsi al TAR, al Consiglio di Stato, ci siamo rivolti alla Commissione Europea facendo petizioni e denunce; tutte cose che in molti casi ci hanno consentito di inceppare l’ingranaggio e ci hanno dato il tempo di organizzarci meglio. In questo senso sono stati una cosa utile, ma abbiamo anche verificato che solo in rari casi ci hanno risolto il problema e che, sempre, per poter ottenere risultati duraturi, è stata necessaria la mobilitazione anche dura. La mobilitazione è la nostra forza.

La necessaria risposta dei comitati

Il quadro che abbiamo sopra delineato ci dice che è necessario superare il livello locale spostando la battaglia sul piano nazionale e che abbiamo nemici comuni da combattere ed interessi comuni da difendere. Entrambi troppo grandi per poter pensare di continuare a lottare in ordine sparso.

E’ per questo che riteniamo necessario un salto di qualità. Unire i comitati sparsi per l’Italia che si battono contro la devastazione ambientale e le nocività, non per unire debolezze ma per moltiplicare le energie. Costruire un fronte di lotta comune dei comitati, un vero movimento che crescendo sui territori è capace di grandi mobilitazioni unitarie intorno ad obiettivi comuni.

A questo scopo, comitati della Campania e del Lazio da giugno si sono riuniti in un coordinamento – Coordinamento nazionale rifiuti-energia – che vuole coinvolgere le centinaia di comitati che, da Nord a Sud, difendono il proprio territorio e la propria salute dagli impianti nocivi dedicati ai rifiuti (inceneritori, discariche, biomasse/biogas, ecc.) o alla produzione dell’energia (trivellazioni, geotermia, rigassificatori, turbogas, ecc.), dalle grandi opere (TAV, bretelle, MUOS, Ponte sullo Stretto, ecc.).

La premessa condivisa di questo percorso è quella di rafforzare la partecipazione dal basso sui territori, l’autonomia dai partiti e dalle istituzioni, la trasparenza dei contenuti della nostra battaglia.

Le assemblee tenute (la quarta a Napoli il 26 gennaio 2013) hanno permesso un confronto franco da cui sono scaturiti i punti comuni su cui far crescere la mobilitazione, cominciando da subito a promuovere iniziative unitarie contro le misure nazionali in tema di rifiuti ed energia.

In sintesi :

No alle discariche di RSU come di rifiuti industriali/speciali/tossici

No ad ogni tipo di combustione ed al recupero di energia dai rifiuti in qualsiasi tipo di impianto compresi quelli spacciati come sostenibili dal prefisso bio (-massa, -gas)

No agli incentivi (CIP6, certificati verdi, tariffa omnicomprensiva) sottratti alle vere energie rinnovabili

No al ciclo integrato ed alla gestione monopolistica e privatistica dei rifiuti

No alla legislazione ed alla gestione di emergenza (Commissariati straordinari)

No alla militarizzazione dei siti, degli impianti e del territorio

Si ad una gestione dei rifiuti che punti al recupero totale della materia attraverso il ciclo virtuoso della raccolta differenziata spinta, il compostaggio aerobico, la filiera del riciclo, il riuso

Si alla riduzione a monte dei rifiuti attraverso l’incentivazione alla riprogettazione dei prodotti, finalizzata alla loro riciclabilità a fine vita, e della modalità di loro distribuzione finalizzata, all’abbattimento degli imballi

Si a bonifiche reali dei territori non finalizzate, attraverso l’uso improprio del fitorisanamento, all’incentivo delle biomasse, come comincia a profilarsi in Campania.

Siamo consapevoli che non si tratta di obiettivi raggiungibili a breve. I poteri forti, che guardano alla natura come nuova frontiera del business, ci ostacoleranno in ogni modo. Ciò nonostante non è immaginabile che siano i comitati a farsi carico, come in molti suggeriscono, di indicare obiettivi minimi di transizione nella falsa speranza di essere guardati con favore per il loro realismo.

La strada è lunga. A noi tocca, senza cedimenti, far crescere la consapevolezza sulla necessità di un cambiamento radicale e, insieme, la mobilitazione per raggiungerlo.

Chiediamo a tutti gli altri comitati di unirsi con noi in questo percorso.

Coordinamento nazionale rifiuti-energia

06/02/13

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